Ho sempre pensato che il lavoro che scegliamo debba essere ricco di sfide che ci consentano, una volta vinte, di crescere ed essere professionisti migliori; di difficoltà che, una volta superate, ci permettano di affinare gli strumenti con cui lavoriamo. Ma sono sempre stata altrettanto convinta che il senso di inadeguatezza non debba mai accompagnare il mestiere che abbiamo scelto. Una lucida consapevolezza delle nostre capacità, della possibilità di miglioramento e di crescita, questo sì, ma non la sensazione di essere in difetto, soprattutto rispetto all’oggetto del nostro lavoro. Ammetto che in quasi vent’anni di editing sui testi più diversi, anche di fronte al romanzo più complicato, perché strutturalmente da ripensare e stilisticamente da raffinare, anche di fronte al saggio più arduo perché di una materia molto distante da me e sulla quale i controlli dovevano essere accuratissimi, ho sempre avuto l’impressione di riuscire a intravedere il lavoro ultimato, come avrebbe potuto essere. E per quanto faticoso – lavorare sulle parole può esserlo, molto – nessun editing mi è mai sembrato una sfida insostenibile. Gli strumenti che derivano da anni e anni di confronto con quel che la parola implica mi sono sempre parsi il mezzo migliore per affrontare qualsiasi testo. Dopo tanti anni, posso affermare che ognuno dei numerosissimi lavori che ho editato è stato un viaggio dal quale sono tornata arricchita. La metafora del viaggio non è casuale. Viaggiare è per me sinonimo di scoperta, conoscenza e crescita e lavorare su un romanzo (qui per facilità parlerò di romanzi e non di saggi) è esattamente questo: entrare nell’universo creato dall’autore, conoscerne i luoghi e i personaggi e uscirne avendo acquisito cose prima non note, ma anche visioni del mondo che i miei soli occhi non mi permettevano di avere. Perché in questo viaggio io dia ogni volta il massimo, quel che conta più di ogni altra cosa è avvicinarsi alla materia narrativa priva di pregiudizi. Il mio gusto personale non conta nel momento in cui mi accingo a leggere un romanzo da editare, viene con facilità messo tra parentesi. Quel che conta, perché il lavoro sia ben fatto, perché io sia per quel romanzo l’editor migliore e perché quel romanzo tragga il massimo giovamento dal mio intervento è comprendere l’intenzione dell’autore, avere chiaro in mente quello che egli vuole raccontare: questo mi consente di aiutarlo nei casi in cui mi sembri che stia deragliando rispetto all’obiettivo. Editing non ha mai significato, per me, sostituirmi all’autore proponendo la mia versione di quel che lui ha scritto: è stato sempre un evidenziare problemi, avanzare dubbi (che possono riguardare struttura, forma, ma anche, molto più semplicemente, un aggettivo usato, il registro di un dialogo), proporre soluzioni alternative – se necessario – ma sempre rispettando la voce dell’autore e motivando qualsiasi proposta. L’editing ha per me un unico scopo: migliorare quel che l’autore ha già scritto, a volte perfezionare qualcosa in partenza già buono. Migliore è l’editor, tanto più capace sarà di scomparire dietro ai suggerimenti, amplificando solo la voce dell’autore, facendola risuonare più chiara e cristallina. È un lavoro dietro le quinte, gli attori restano e devono restare gli autori. Di cosa significhi, all’atto pratico, editare un romanzo, di cosa voglia dire per me – la scelta di lavorare in proprio mi permette e mi obbliga a parlare in prima persona – proverò a parlare negli articoli che seguiranno.