Ricordo benissimo quando è nata la “storia” dei diari. Prima o seconda media.
L’insegnante di lettere ci parla della forma diaristica e ci invita a tenere un diario. Io, che già al tempo prendevo tutto molto sul serio, non esitai. Credo iniziai la sera stessa. Ma la cosa, da compito divenne ben preso un’esigenza. All’inizio usavo agende degli anni passati, mai utilizzate, poi passai a quaderni e quadernini dall’aspetto molto più dignitoso.
Tengo diari da oltre trenta anni. Un tempo erano un appuntamento serale, negli anni hanno conosciuto stagioni intense, altre di disamoramento. Ma io so che sono solo pause. Torno sempre a loro. Poi ci sono i “diari di bordo”, quelli che per anni ho tenuto durante i miei viaggi, e da un paio d’anni il diario di Giulietta. È un diario, che ho iniziato a scrivere durante la gravidanza, in cui mi rivolgo a lei, allora ancora dentro di me, raccontandole ciò che non potrà mai ricordare. Un giorno, aprendolo – non so se e quando smetterò di tenerlo – spero provi quello che immagino avrei provato io se mia madre ne avesse scritto uno per me. E spero possa riconoscere la sé stessa bambina. E l’amore tra noi, forte come lo è adesso.
I miei diari, invece, spero li legga per sognare storie che non conosce o che forse le avrò raccontato, per ricostruire la parte (tanta parte) della vita di sua madre in cui lei non c’era. L’idea di consegnarle i miei pensieri più reconditi e meno condivisi mi fa stare bene. L’idea che quei diari possano finire in qualche scatolone ed essere un giorno scoperti da un nipote, che verosimilmente non conoscerò, mi fa stare bene.
Ecco, i diari sono stati veri compagni di vita. Pagine in cui ho riversato di tutto, senza dovermi preoccupare della forma, senza sforzarmi di trovare quella migliore. Lo spazio di assoluta libertà d’espressione dei miei pensieri. Per questo mi piace pensarli destinati a chi immagino mi amerà molto. Sarà come consegnare un pezzo di me. Ed è per questo che devono rimanere nel cassetto. Perché sono un’esperienza particolare che non aspira a nient’altro.
Quando leggo un romanzo, specie quelli in cui l’esperienza autobiografica è forte, mi chiedo sempre – e chiedo spesso all’autore – : quest’esperienza può aspirare a essere, se non universale, almeno fortemente condivisa? È, insomma, qualcosa di molto diverso dai miei diari?
Quello che vorrei leggere, d’ora in avanti, sono storie in cui si senta perfettamente questo respiro universale. Pagine che siano capaci di comunicare visioni del mondo particolari e personali ma che contengano in sé la possibilità di essere abbracciate da qualsiasi lettore, che, grazie al potere della scrittura, possa compiere il viaggio che quelle pagine propongono come se ne fosse lui il protagonista.
Mi auguro di lavorare su storie simili. Di aiutarle a sbocciare. A trovare una strada. E magari lo scaffale (o la vetrina) di una libreria.